lunedì 30 marzo 2020

La crisi delle alleanze e degli accordi




Sia perchè mancasse ai successori di Francesco Crispi l'elemento prezioso dell'autorità personale, sia perchè la loro azione fosse pregiudicata da dichiarazioni pubbliche accennanti a preferenze per un diverso orientamento della politica italiana, l'edificio innalzato con tante fatiche crollò. Germania e Austria cominciarono a guardarci con diffidenza; — la Francia, tra le proteste di amicizia a lei e il mantenimento dell'alleanza con le Potenze centrali, non vide chiaro e continuò le sue ostilità; — l'Inghilterra, convintasi della nostra incostanza e debolezza, accentuò la sua tendenza a intendersi a tutti i costi con la sua antica nemica, la Francia. Cosicchè si andò formando questa situazione: le nostre alleanze ci garantivano l'integrità territoriale, ma ci attiravano nello stesso tempo tutti i danni della guerra tenace che i francesi, sapendoci indifesi, ci facevano dovunque; e inoltre eravamo tenuti in disparte dalle combinazioni della grande politica europea.
Uno dei nostri migliori diplomatici, il barone A. Blanc, che fu ministro degli affari esteri nel secondo ministero Crispi, aveva veduto subito nel 1891, dall'osservatorio importantissimo che era allora Costantinopoli, i danni del nuovo indirizzo e li aveva segnalati:

... Non si può più dissimulare al pubblico, il quale qui incomincia a scandalizzarsi dell'impotenza della diplomazia anche per la protezione dei nazionali esteri, che, distruttosi il concerto europeo, del che le ambasciate di Russia e di Francia accusano le potenze alleate, non vi fu sostituita la preponderanza effettiva di queste ultime, onde anarchia in un governo che senza ingerenza europea non può compiere i suoi obblighi interni ed internazionali. Il Sultano non crede il gruppo anglo-austro-italiano capace d'una vera e seria azione solidale; è convinto non potersi più riunire gli ambasciatori in conferenze; li oppone, più che non potè far mai pel passato, l'uno all'altro, sfidandoli, finchè osa, tutti.
I ministri ed il Palazzo in piena balìa di finanzieri, il Sultano che investe personalmente in Inghilterra ed in America quanti più capitali può, aspettano la preveduta fine; ed il Sovrano diceva testè ad un suo famigliare: «Che direste se accettassi la protezione russa?» Per ciò militarmente il Bosforo è aperto alla Russia e i Dardanelli sono chiusi a noi. Non vi sarebbe resistenza armata nè reazione di popolo contro la Russia, se questa sbarcasse una divisione a tre ore dalla capitale. Sarebbero allora in tempo le squadre inglesi o le squadre alleate a rinnovare la dimostrazione fatta nel 1878 a Santo Stefano? Non è probabile. O può dirsi che una volta a Costantinopoli la Russia sarebbe in una trappola, in condizioni insostenibili? Al punto di vista militare e navale, può darsi: al punto di vista politico, da nessuno, neppure dagli uomini di Stato bulgari si nega che intorno a Bisanzio, restituita alla ortodossia, tutti gli Slavi dei Balcani saranno trascinati da irresistibile impulso, come nel 1861 tutti gli Italiani si unirono al grido di Roma capitale. Che avverrà allora dell'ideale nostro delle autonomie, la cui unica guarentigia sarebbe stata la preponderanza politica e navale dell'Inghilterra e dell'Italia sui porti della Turchia europea? Che avverrà allora della teoria germanica dell'inorientazione dell'Austria-Ungheria? e della possibilità di soddisfazioni, a meno d'un'altra gran guerra, nell'interesse anglo-italiano d'equilibrio nel Mediterraneo? Non è forse abbastanza valutato dalla Germania e dall'Austria-Ungheria il fatto che in certi momenti la presenza d'un principe di loro fiducia a capo di tale o tal altro Stato balcanico non è punto sufficiente ad impedire rivolgimenti di volontà popolare? Basti ricordare come trionfò la causa della riunione della Rumelia orientale, tanto avversata e temuta a Vienna e a Berlino, per dimostrare che, anche in Oriente, si deve pur tener conto delle tendenze dei popoli.
Questa regia ambasciata s'inspirò fin dal 1887 al convincimento che a tale situazione è pericoloso applicare la massima inertia sapientia; che la pace e lo statu-quo legale non sospendono il corso della evoluzione delle nazioni; che in piena pace, in pieno regime d'alleanze, se l'Egitto diventò inglese e se il versante sud dei Balcani diventò bulgaro, più facilmente ancora possono stabilirsi nel Mediterraneo nuove condizioni propizie o contrarie agli essenziali interessi italiani; che il programma di pace essendo per sè negativo, non si doveva esporre l'Italia a non vedere più altri scopi positivi per l'alleanza se non quelli odiosi che le attribuiscono i nostri avversari, cioè un appoggio cercato all'estero per le istituzioni monarchiche, o un pegno preso sulla eredità d'una Francia minacciata di smembramento; e che in conclusione, perchè l'alleanza diventasse popolare e proficua, e fosse nella coscienza italiana non un espediente necessario alla sicurezza, ma una base di fruttuosa operosità, dovessimo, dopo aver rifiutato disgraziatamente quel primo premio dell'alleanza che era l'Egitto, rifarci almeno con una legittima influenza in Oriente, fondata sopra un liberale sviluppo di autonomie nella penisola balcanica e sopra la preponderanza navale e politica delle quattro potenze sugli scali del Levante.
Perciò quest'ambasciata proponeva nel 1887 quelle intelligenze che furono adottate senz'altro a Vienna e a Londra. Queste, che i miei colleghi amici chiamarono il patto fondamentale della nuova politica europea in Oriente, e che sir W. White diceva segnare una data storica, colla quale si poneva termine al secolo di guerra caratterizzato dagli spartimenti della Polonia e della Turchia; questo punto di partenza d'una nuova êra d'influenza, consentitaci in Oriente, ove col fatto si decide la questione se una potenza sia grande o piccola, dall'Inghilterra o dall'Austria-Ungheria, ambedue allora per ragioni diverse disposte ad appoggiarci per ingerenze per noi più naturali e più facili, a favore delle autonomie e della libertà degli stretti; questo programma, infine, la cui pratica attuazione, studiata in ogni particolare, ci avrebbe costato assai meno oro e meno forza della nostra politica militare nel mar Rosso, è desso rimasto finalmente lettera morta! Fin dal 1888 i miei colleghi dichiaravano non spettar più all'iniziativa di essi e mia qui, bensì a diretti concerti tra i gabinetti, la pacifica ma efficace attuazione di quelle intelligenze. Havvi luogo ancora di sperare che intervengano simili concetti, estesi, cioè, ad altri interessi pacifici nel Mediterraneo, oltre a quelli della sicurezza delle nostre coste!
Succede ora un fatto capitale, che fu appena avvertito in Italia, il riparto virtuale dell'Africa tra l'Inghilterra, Germania e Francia, le quali sole si inoltrano verso i decisivi punti centrali, ove fra le sorgenti dei grandi fiumi verrà decisa un giorno la preponderanza sul continente nero, — mentre la Tripolitania senza l'hinterland non è più, per le relazioni che a noi premono tra il Mediterraneo e l'Africa, che quasi un non valore, secondo l'espressione del signor di Radovitz. Mentre durano la pace e l'apparente statu quo, sipario calato davanti agli spettatori, velo protettore dietro il quale altri opera mutamenti di scena d'importanza mondiale, vedremo noi troppo tardi verificarsi qui altre trasformazioni per noi non meno gravi, di cui forse oggidì i preludi passano dalla nostra diplomazia inosservati?»....
«Costantinopoli, 2 settembre 1891.

Questioni internazionali - Francesco Crispi . 1913 Fratelli Treves Editori.

mercoledì 25 marzo 2020

venerdì 2 gennaio 2009

CRISI COMMERCIALE


Questa serie di fatti conduce all' origine di questo scompiglio commerciale. Il sig. M' Culloch intraprese questo esame in un articolo dell'Edinhurgh Review; ed ecco le sue principali riflessioni.

Non una causa sola, ma più cause concorsero a produrre questo disordine.

1. Le restrizioni commerciali, di cui alcune furono soltanto levate nel 1825, ed altre sussistano ancora. Queste deviando i capitali dal loro corso naturale gli obbligano ad entrare in parziali canali, e quindi a produrre una qnantità di una data specie di manifatture, maggiore del bisogno. Perchè generando alti prezzi, ed alti guadagni allettano gli speculatori, come suole anche avvenire in agricoltura. Gli alti prezzi del 1824 in certe manifatture chiamarono a se molti capitali, come nel 1800, nel 1811 e 1812 gli alti prezzi de' grani animarono di soverchio questa coltivazione; sicchè negli anni susseguenti vi fu un ribasso e scoraggiamento insolito.
Questa riflessione del sig. M' Culloch mi sembra intieramente conforme all' opinione del celebre economista Smith così' enunciata: « Quando i profitti del commercio sono maggiori dell' ordinario lo stracommerciare (overtrading) divenga un errore comune ai grandi e ai piccoli mercanti.
Essi non sempre mandano all'estero più denaro del solito; ma comperano a credito dentro e fuori di stato, una straordinaria quantità di merci ch'essi spediscono in qualche distante mercato, nella speranza che i ritorni giungeranno prima della domanda pel pagamento.
La domanda sopraggiunge prima dei ritorni, ed essi nulla hanno nelle mani con cui comperare la moneta, o dare una solida sigurtà per prendere a prestito.
Non è dunque la scarsezza d' oro e d'argento, ma la difficoltà che simili persone provano nel prendere a prestito, e quella che i loro creditori ritrovano nell'essere pagati, che cagiona la generale lagnanza di scarsità di moneta».

2. Per conseguenza il governo deve astenersi dall'accordare sussidj a simili rami di commercio, perchè prolungherebbe, anzi aumenterebbe un disordine a spese della società.

3. Non è vero che vi fosse in circolazione un aumento straordinario di biglietti di banco; ma non pertanto questi furono un incitamento agli speculatori non solidi a ritrovar credito e danaro presso banchi non solidi. I pescivendoli e i pizzicagnoli non devono godere, come disse Lord Liverpool, il privilegio Reale di emettere moneta di credito senza alcuna solida garanzia.

4. L'esportazione del numerario per l' America ed in altre parti, contribuì a suscitare il timor panico....

5.Fu pure una causa l'ignoranza dei negozianti, che spedirono in America non solo una ridondanza di articoli, ma altresì non convenienti a quel clima.....

L'Anno Mille Ottocento Ventisei dell'Inghilterra colle osservazioni di Giuseppe Pecchio - Dai Tipi di G. Vanelli e Comp. 1827

martedì 16 dicembre 2008

LEGISLAZIONE


Dall'urto degli interessi escono le idee sulla legislazione; le sventure gettano sul campo della scienza que' problemi terribili che vanno a distruggere il passato, ad assicurare il commercio; i vincoli del feudalismo, le profusioni, i fallimenti nazionali forzano i popoli a riflettere sulle sorgenti della ricchezza, sulla forma dei governi, sulla sorte delle nazioni.
Il lusso è l'alimento del commercio e il flagello del feudalismo, e il problema del lusso esagita le idee ; sembra anzi che per alcuni scrittori il problema del lusso involga tutti i problemi dell'economia pubblica.
Il commercio si collega all'agricoltura come il lavoro alla materia; ma la bilancia degli interessi ora pende in favore delle terre, ora in favore dell'industria; e si domanda quindi, quale tra la terra o l'industria sia la fonte della ricchezza? bisogna preferire il commercio o l'agricoltura, la manifattura o le terre?
Questa questione ingrandisce e inviluppa i costumi; il governo, i pensatori del secolo si domandano, se val meglio l'agricoltura di Sparta o il commercio dell'Inghilterra? — Nessun commercio senza lavoro, nessun lavoro senza speranza di guadagno, nessuna speranza di arricchire, se le leggi non assicurano il frutto dell'industria; senza libertà, senza giustizia, senza sicurezza, nessun commercio; i ricchi allora seppelliscono i loro tesori, i capitali scompaiono, le fabbriche restano vuote, gli operai diventano o paesani o ladri; non è che la giustizia che getta il ladro nel commercio, i capitali nelle fabbriche: ed ecco che il commercio nel secolo XVIII rivede le leggi, gli statuti, vuol codici, si solleva contro le primogeniture; i fidecomessi che tengono le terre ne' vincoli della feudalità, si elevano contro le mani morte che sottraggono alla circolazione immense ricchezze contro l'ozio de' ricchi, de' monaci, de' nobili, i quali vivono sul lavoro de' poveri, e rappresentano dinanzi al commerciante una sterile superfetazione della società. — In mezzo a tutte questo fasi del pensiero mercantile del secolo vi sono alcuni spiriti tristi offesi dall'ordine sociale, calpestati dalle ineguaglianze fortuite della nascita, delle ricchezze, dei poteri; la civilizzazione pesa su di essi come una iniquità imposta dalla forza architettata da odiose menzogne; essi utilizzano tutte le guerre del commercio e dei proprietari, della filosofia e della religione, del lusso e della moralità ; essi vedono il selvaggio senza i vizi del commercio, senza le aspettative divoranti dell'Europeo, senza le menzogne del seguace di Lutero, senza la cieca obbedienza del suddito di Luigi XV, e vanno a domandarsi se la civilizzazione è il prodotto della forza e della menzogna, se vale meglio l'arte o la natura, la vita pacifica del selvaggio o le sventure della società incivilita, se all'uomo della natura sono assolutamente necessari cannoni da 24, armate permanenti, gran debiti pubblici....
fonte: Opere di Giambattista Vico - G. Ferrari - 1887 - Soc. Tipog. De' Classici Italiani

venerdì 7 novembre 2008

SE IL DANARO FACCIA RICCHEZZA


Ho stabilito sin da principio che la ricchezza non consiste in una o in tal'altra
cosa, ma in una somma di piacevoli sensazioni, che in noi viene prodotta dal godimento dei beni.

Dunque l'oro e l'argento non è ricchezza esclusiva, ma al più può
entrare nella massa dei beni. Ed anche sopra di ciò è da osservarsi, che il danaro
comparisce nella società sotto due aspetti, cioè come metallo servibile a molti usi
della vita , ed allora va collocato fra i beni ; e può formare parte della ricchezza, come il grano, il vino, la seta, la lana ec., o come moneta coniata , ed allora non costituisce ricchezza, ma è un semplice istrumento o una macchina di circolazione, che ho chiamato equivalente dei beni; onde è chiaro, che avendo da una parte la massa dei beni, e dall' altra la massa degli equivalenti noi fonderemo i nostri godimenti sui beni, e non sugli equivalenti, perchè l' equivalenza non è che una opinione o una rappresentazione, la quale svanisce se cessa l'umano consentimento, e non rimane veramente, che la realtà dei rappresentati, cioè i beni.

Supponiamo che vi sia nella nazione un milione di beni, e vi sia un milione di
scudi; ogni bene sarà misurato dal suo equivalente, cioè da uno scudo; e se gli equivalenti montassero a due milioni, ogni bene sarebbe misurato da due scudi; e se finalmente gli equivalenti scendessero a mezzo milione, ogni bene sarebbe misurato da mezzo scudo.

Ora quale è la conseguenza dell'alzamento, o dello abbassamento degli equivalenti? nessuno affatto in quanto alla prosperità della nazione, mentre i beni consumabili
si trovano nella stessa quantità, e ciascuno partecipa alla sua porzione qualunque
siasi il cambiamento avvenuto nella massa del danaro.

Ma se i supposti cambiamenti accadessero nella massa dei beni, la differenza sarebbe allora sensibile; imperciocchè la porzione dei beni, che tocca a ciascuno, ora si raddoppiarebbe, ed avressimo doppio accrescimento di ricchezza, ed ora si ridurrebbe a metà, ed avressimo doppio decrescimento di ricchezza.

Dunque il danaro in ogni combinazione non altera per se stesso lo stato economico, ed altro non succede, che in ragione della sua massa ora si da più, ed ora si da meno di danaro nel cambio di esso coi beni. Ma se il danaro non fa ricchezza, perchè
mai le nazioni, che più abbondano di esso, hanno preponderanza sulle altre, sono più
potenti, ed ogni classe di persone nuota nell'abbondanza, e consuma più beni, e
quindi gode più comodi, e piaceri?
L'inganno consiste che noi crediamo, che questa potenza, quest'abbondanza di beni, questi comodi e piaceri siano il frutto, o la conseguenza del danaro; ed all'opposto l'abbondanza del danaro è il frutto, e la conseguenza dei beni; e però non il danaro, ma i beni sono gli antecedenti, e il danaro il conseguente. E in fatti da che il danaro è divenuto l'equivalente dei beni, è forza che il danaro siegua sempre da vicino i beni, come è anche vero, che i beni seguono il danaro; onde queste due cose non possono restare separate, come l'ombra non puo' essere divisa dal suo corpo. Ma siccome il corpo genera l'ombra, così può dirsi, che i beni generano il danaro. E intanto accade questo fenomeno, perchè i beni, per l'ordine introdotto, non potrebbero circolare nè pervenire al consumatore senza il danaro, che ne è di venuto il veicolo; onde se i beni non potessero circolare nè consumarsi, nè anche si produrrebbero.
Ed ecco in che consiste l'utilità del danaro, che esso diviene causa indiretta di produzione di beni, e non si deve considerare, che sotto questo punto di vista. E' costante osservazione, che dove sono beni, ivi corre e si raduna il danaro, e dove è danaro, ivi corrono e si radunano i beni. Allorchè in una fiera concorrono da tutte le parti i mercatanti a portar merci di ogni qualità, non è minore la frequenza di quelli, che vi si recano con danaro per farne l' acquisto.
fonte: DELL'ECONOMIA DELLA SPECIE UMANA - Adeodato Ressi - Stamperia e Libreria P. Bizzoni - 1869

lunedì 13 ottobre 2008

DEL CORSO DELLA MONETA

Io chiamo correre la moneta quel passare ch'ella fa d'una mano in un'altra come prezzo d'opera o di fatiche, sicchè produca, in colui che la da via, acquisto o consumazione di qualche comodità: perchè quando si trasferisce diversamente fa un rigiro inutile, di cui non intendo qui favellare.
Così se il principe destinasse mille ducati, i quali ogni mattina dovessero trasportarsi dalla casa d'un suo suddito a quella d'un altro, un tanto giro nè gioverebbe allo stato, nè accrescerebbe forze o felicità, ma solo molestia e strapazzo a' cittadini. È adunque il corso della moneta un effetto, non una causa
delle ricchezze; e se non si suppongono preesistenti molte merci utili che possano trafficarsi, la moneta non può far altro che un giro vano ed infruttuoso. Perciò quegli ordini che conferiscono a moltiplicar le merci venali sono buoni, gli altri sono tutti cattivi e dannosi.
Stieno in una camera chiuse cento persone con una certa somma di danaro a giuocare. Dopo lungo giuoco avrà il danaro avute certamente iunumerabili vicende, ed altrettante la ricchezza e la povertà de'giuocatori; ma il totale non è nè cresciuto nè diminuito mai, e nel luogo non si può dire variata la ricchezza. Vero è che il mancare il corso impedisce il proseguimento delle industrie e perciò genera povertà, come pel contrario il corso veloce le fomenta; ma chi ben riguarda osserverà, che il corso della moneta può ingrandire e stabilire le ricchezze già cominciate ad essere in uno stato, non generarle ove non sieno.
Sicchè sempre è vero che s'abbia a pensare prima ad aver merci e poi a dar loro il corso, acciocchè vendute e consumate presto le une si dia luogo alle altre di succedere. E vero ancora che un rapido giro fa apparire una non reale ricchezza; come è là dove la nobiltà vive con lusso e spese superiori alle rendite sue, e i
debiti che fa non li paga. I nobili non si persuadono d'essere impoveriti; ma il mercante che numera i suoi crediti come certa ricchezza si stima ricco, e sulla creduta rendita ingrandisce la spesa; fino a che tutti e due, il nobile ed il mercatante, vanno giù poveri e troppo tardi disingannati.
È dunque tanto peggiore un tale rigiro pieno di fantasmi di ricchezze, quanto è peggiore della povertà il credersi ricco e non esserlo.
fonte: Della Moneta - Ferdinando Galiani - Fonderia e Stamperia G.G. Destefanis - 1830

mercoledì 1 ottobre 2008

IL MUTUO


E' il contratto con cui cose rappresentabili (non determinate individualmente) vengono date altrui in proprietà perchè si possano anco consumare, mercè però l'obbligo della restituzione d'una simile quantità di cose della stessa specie.
Nel mutuo come trattasi di beni rappresentabili, può interessare anco il concetto economico nazionale del capitale, come un fornimento di beni. In quella stessa guisa
che pel valore di uso e di scambio d'un capitale è specialmente fondala la rendita, così in un capitale di mutuo, è basato l'interesse.
A cagione della somma influenza che siffatti negozii giuridici tanto frequenti esercitano sovra la vita morale economica, le legistazioni, tanto la romana quanto le recenti introdussero una limitazione nelle condizioni degli interessi, prescrivendo a questi una scala.
La legistazione del medio evo appoggiandosi ai precetti della chiesa che derivolli dall'evangelio, confondendo la esigenza religiosa morale col punto giuridico di stato, e sconoscendo in genere la natura della rendita, avea vietato del tutto gli interessi, come usura, ed all'incontro permesso le rendite (comprese di valori) pei debitori più vantaggiose.
Nei tempi nostri, un'economia nazionale astratta, collegata con dottrine di diritto e di contratti, pure astratte, esige la soppressione di tulle le leggi sull'usura, e vuole illimitata la gradazione degli interessi.
Ma comunque sia pur cosa giusta che la misura degli interessi si trovi mutevole a norma de rapporti, avvegnachè non la si possa per nulla acconciamente determinare invariabilmente da leggi costanti, tuttavia il limite degli interessi dovrebbe uniformasi per gli affari privati, alla misura adottata pubblicamente oggidì in tutto i grandi stati, da pubblici regolatori che trovatisi sotto la controlleria della opinione sociale e dello stato, cioè dalle pubbliche banche ipotecarie, e dalle istituzioni di prestito (1). Però innanzi tutto convien provvedere alla formazione di istituti di credito (non di borsa) bene organati, se vuolsi che
il libero commercio privato riceva norma da una libera potenza sociale .
Fonte: ENCICLOPEDIA GIURIDICA OVVERO ESPOSIZIONE ORGANICA DELLA SCIENZA DEL DIRITTO E DELLO STATO FONDATA SUI PRINCIPI DI UNA FILOSOFIA ETICO-LEGALE - PROF. H. AHRENS - STABILIM. CIVELLI G. E COMP. - 1857